Annibal Caro fra curiositas e invenzione

Annibal Caro,“Marchegiano e di piccola terra”, secondo la felice definizione data da Giacomo Leopardi nello Zibaldone, è una figura tra le più originali della cultura italiana del Cinquecento; ispirato e raffinato interprete di quella curiositas che animò gli spiriti più moderni, visionari, della cultura umanistico-rinascimentale.

Dopo un apprendistato di stampo umanistico, i suoi interessi conobbero una versatilità non comune, certamente favorita dal suo essere “autodidatta”. Versatilità che lo portò a incrociare lo stile comico che nel Quattrocento aveva trovato nel fiorentino Domenico di Giovanni detto il Burchiello (da cui lo stile “burlesco”) una delle voci più significative. L’articolata produzione letteraria cariana deve essere vista in stretto rapporto con le tappe più salienti della sua vita in qualità di cortigiano e segretario al servizio di alcune tra le più potenti e illustri famiglie del tempo (i Farnese su tutti). A metà degli anni Venti, il Caro è a Firenze nelle vesti di precettore di Lorenzo e Antonio Lenzi, nipoti di monsignor Giovanni Gaddi. Soggiorno che gli permise di entrare in contatto con personalità della levatura di Benedetto Varchi, Pietro Vettori, Francesco Berni. Soprattutto il Berni gli servirà per riannodare il discorso con quella poesia burlesca toscana da cui aveva preso le mosse la sua curiositas letteraria, così come nel Varchi troverà un modello di comportamento linguistico meno normativo, andando al di là di certo tetragono regolismo aristotelico.

Ma è certamente il soggiorno romano (1529-1542), fatto per seguire come familiare monsignor Giovanni Gaddi, ad inaugurare una nuova e intensa stagione letteraria. A Roma entra a far parte dell’Accademia dei Vignaioli e dell’Accademia della Virtù, dove l’esercizio prediletto è ancora una volta quello “burlesco”. Anche il successivo soggiorno napoletano, dove il Caro ha modo di conoscere figure come Bernardo Tasso, Luigi Tansillo, Giovanni Valdes, Bernardino Telesio, si rivelerà particolarmente fruttuoso sotto il profilo culturale, dando alla sua lingua importanti sfumature espressive. Lingua che andò maturando soluzioni sempre più di carattere erotico, in linea con certa vocazione burchiellesca e bernesca di fondo. Opere come la Nasea ovvero diceria de’ nasi (composta nel 1538 in onore di Giovan Francesco Leoni) e il Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del Padre Siceo (pubblicata nel 1539), ne sono una testimonianza diretta. In un’epoca in cui si consuma in sostanza lo “scacco” della narrativa italiana, il Caro costruisce, sia pure per tessere, una personale visione del romanzo, guardando sempre più con interesse alla nascente linea del romanzo “picaresco”.

Altro importante capitolo di questo “possibile” romanzo “picaresco” è rappresentato dalla commedia Gli Straccioni scritta nel 1543 quando il Caro era passato al servizio di Pier Luigi Farnese, figlio di papa Paolo III; commedia tra le più riuscite del Cinquecento in una ambientazione quasi allucinata di un certo mondo romano popolare e un po’ “straccione”, con sullo sfondo il palazzo Farnese, simbolo del potere. Insomma, una tendenza al romanzesco con punte davvero gustose di teatralità, senza percorrere la strada canonica del romanzo, che in Italia tra l’altro mancava. Questa sensibilità quasi rabdomantica proietta il Caro nel cuore dell’Europa letteraria moderna; tratto che si coglie anche nella vasta produzione epistolare, quella che fa delle Lettere Familiari un documento pressoché unico nel suo genere.  In questa rapidissima carrellata di percorsi letterari, non può certo mancare un riferimento all’attività di traduttore. Dopo essersi cimentato nel 1537 nel “volgarizzamento” dal greco de Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, diventato per le sue intrinseche potenzialità romanzesche un modello della narrativa erotica moderna, il Caro, tra il 1563 e il 1566, si cimenta nel “volgarizzamento” dell’Eneide virgiliana. Ed è qui che dà prova del suo straordinario talento, sottoponendo il volgare italiano a un lavoro di smarcamento dalla lingua latina. Il Caro ridà valore all’esercizio traduttivo, sottraendolo a una letteralità troppo prevedibile, scontata. Da anemica pratica tecnicistica la traduzione diventa un momento di reale invenzione letteraria. Ancora una volta è stato il Leopardi a capire il senso profondo di quella rivoluzione letteraria là dove l’operazione cariana fa in sostanza “parere l’opera non traduzione, ma originale”.

Marcello Verdenelli

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